Novità all’orizzonte?
Chi ha paura del Metaverso? In questa nuova ondata di progettualità e finanziamenti che riguardano gli ambienti scolastici, molti di noi stanno iniziando a chiedersi quali saranno i principali effetti sulla didattica di un ennesimo grande investimento in tecnologie digitali e spazi più o meno innovativi.
Ciascuna delle recenti stagioni è stata caratterizzata da un certo protagonismo di dispositivi e arredi mobili accentuato dai media: così, dopo le lim e i banchi a rotelle, sono approdati alla scuola degli ambitissimi visori VR. Certamente noi insegnanti di tecnologia non possiamo fermarci alla facile ironia o, peggio, essere spaventati da queste nuove proposte: il nostro compito è cercare di coglierne tutte le opportunità. Ma di che cosa si tratta concretamente?
Facciamo finta che…
Cambiare identità vestendo panni altrui, esplorare spazi sconosciuti, imparare a guidare veicoli o utilizzare strumenti nuovi è più semplice e tranquillizzante se il luogo in cui tutte queste cose succedono semplicemente… Non esiste! O meglio, esiste in una dimensione immateriale in cui le conseguenze delle nostre azioni spesso non hanno peso, se non sulla nostra capacità di imparare attraverso i nostri errori.
Quello che oggi viene comunemente definito Metaverso è un’applicazione di realtà virtuale: una simulazione di un luogo o di una situazione talmente credibile da consentire all’utente di immedesimarsi totalmente nell’esperienza. Si può ottenere un risultato simile soltanto attraverso ricostruzioni tridimensionali molto raffinate e concatenate fra loro che arrivano a definire veri e propri “mondi”.
L’immersione totale in questo altrove può avvenire solamente attraverso periferiche che “aumentano” la nostra sfera percettiva riproducendo dinamiche reali (i cinque sensi), ma anche logiche ipertestuali (come la ricerca di informazioni o la condivisione di prodotti digitali). Queste forme di realtà ibrida possono entrare oggi in modo molto concreto nelle nostre scuole: per essere cittadine e cittadini digitali consapevoli dovremo cercare di definirne rischi e sfruttarne le opportunità andando oltre paure e luoghi comuni.
Molti sostengono che dopo il COVID lo spazio del laboratorio abbia in qualche modo perso significato a vantaggio di situazioni ibride. Per alcuni studiosi lo spazio dell’aula deve ormai essere in qualche modo ampiamente configurabile per accogliere le diverse esigenze didattiche e stili di apprendimento: sembra non esistere più la necessità di confinare in alcuni luoghi consolidati l’apprendimento attraverso l’attività pratica.
Altre voci, apparentemente più nostalgiche invece, invocano con forza un ritorno alla concretezza, sostenendo che questa nuova dimensione immateriale dell’apprendimento possa in qualche modo causare poco coinvolgimento nel lungo periodo, andando a incidere negativamente su quella che è la dimensione dello sviluppo esperienziale “in situazione” delle competenze. Il mondo del disegno tecnico non è nuovo a queste riflessioni: in qualche modo, si è aperto al Metaverso già da diverso tempo.
Insegnare a vedere
Le prime sperimentazioni hanno riguardato l’ambito dell’architettura: fin dalla fine degli anni Novanta i professionisti che volevano ricostruire l’interno di un edificio e le trasformazioni che avrebbe subito per mostrarle ai propri clienti si sono appoggiati a modellatori solidi che permettevano di realizzare simulazioni non immersive dello spazio costruito. Ben presto questa pratica, assimilata perlopiù attraverso processi di autoapprendimento, è approdata nella didattica universitaria attraverso i corsi di disegno automatico.
Si è poi passati a elaborazioni molto più realistiche attraverso il video: fruire di una simulazione tridimensionale dinamica dello spazio progettato non è più stata utopia. Alcuni esempi molto recenti di queste applicazioni riguardano il settore dell’homestaging, una tecnica di compravendita immobiliare basata sul mostrare le potenzialità di un appartamento o di una casa attraverso sistemazioni provvisorie di alcuni ambienti. Esistono popolari programmi televisivi in cui si simulano ristrutturazioni domestiche direttamente all’interno degli ambienti visitati dai futuri proprietari.
Se le ricadute in ambito commerciale risultano evidenti, arrivare sui banchi di scuola e in particolare nelle nostre aule di disegno potrebbe apparire certamente più complesso. In anni recenti, però, si è assistito a un utilizzo sempre più presente della modellazione solida in sperimentazioni che hanno coinvolto il tinkering e la stampa tridimensionale.
La domanda che è legittimo farsi a questo punto è quindi come questa sperimentazione possa ora essere tradotta in una pratica condivisibile nella didattica curricolare tenendo conto di alcune tradizioni disciplinari. Con un visore 3D e un modellatore è possibile imparare meglio la geometria? Credo che questo sia un ambito di riflessione e sperimentazione ancora ben poco praticato, specialmente se la frequentazione del Metaverso verrà vista solamente come un modo per lavorare sulla creatività dei nostri piccoli maker… Ben lungi dal voler tarpare le ali alla loro progettualità, si intende. Credo però sarebbe altrettanto interessante e forse addirittura più utile provare a immaginare applicazioni nell’apprendimento delle abilità visuo spaziale e in particolare nel delicatissimo passaggio fra descrizione bidimensionale e rappresentazione tridimensionale di forme solide ed enti geometrici.
Compensare l’enorme sforzo di immaginazione richiesto a un ragazzino del secondo anno della scuola secondaria di primo grado che deve riconoscere le tracce delle proiezioni ortogonali di una piramide immersa in un triedro potrebbe certamente essere un banco di prova interessante per misurarne l’efficacia. Il Metaverso potrebbe così essere inteso come un interessante strumento per insegnare a vedere la geometria ai progettisti del futuro.
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